venerdì 10 ottobre 2014

Futurismo

Il Futurismo nacque nel 1909 con il Manifesto di Filippo TommasoMarinetti (1876-1944) pubblicato sul quotidiano parigino Le Figaro; a quel primo manifesto fecero seguito molti altri manifesti, scritti per lo più da Marinetti anche se firmati da altri intellettuali, che coprirono il ventaglio di quasi tutte le arti. Marinetti fu soprattutto un validissimo organizzatore culturale, capace di aggregare e motivare gruppi di intellettuali in tutta Europa, mediante lettere ai giornali, provocatorie serate e conferenze.
La poetica si fondava sull'accettazione entusiastica del futuro, del nuovo; i temi della modernità trovarono incarnazione nell'automobile, nell'aeroplano, nella velocità, nell'elettricità, nelle fabbriche.
Le opere futuriste utilizzavano i canoni di dinamicità, simultaneità, disordine formale e celebravano temi di lotta e aggressione. Gli slogan più conosciuti sono l'immaginazione senza fili (la fantasia libera cioè di associare qualsiasi contenuto) e le parole in libertà, al di fuori di ogni schema, così da esprimere gli istinti nella maniera più diretta.
Gli esiti migliori il Futurismo italiano li diede nell'ambito della pittura, grazie all'apporto di artisti come Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Carrà. In letteratura, accanto alle opere diMarinetti e di altri poeti futuristi (tra cui Paolo Buzzi, Luciano Folgore e altri), va ricordato l'apporto della rivista Lacerba, che Giovanni Papini e Ardengo Soffici aprirono nel 1913 ai futuristi milanesi. Al Futurismo si collega inoltre la carriera giovanile di scrittori come Corrado Govoni (1889-1965) e Aldo Palazzeschi (1885-1974).
In generale il Futurismo non produsse capolavori, ma molte idee, che stanno alla base di quasi tutte le sperimentazioni dell'arte novecentesca. Per esempio in campo teatrale il Futurismo avanzò la proposta di un teatro sintetico, e cioè dinamico, alogico, provocatorio: un programma bruciato in brevi drammi (scritti da Marinetti e altri) di scarso valore intrinseco, ma assai importanti per la serie di esperimenti cui dettero vita in tutta Europa.


Esempi di arte futurista :  Umberto Boccioni

"belle époque"


L'espressione "belle époque" (l'epoca bella, i bei tempi) nacque in Francia prima dello scoppio della Grande Guerra. Essa nasce in parte da una realtà storica e in parte da un sentimento di nostalgia. Dalla fine dell'Ottocento le invenzioni e progressi della tecnica e della scienza furono senza paragoni con le epoche passate. I benefici che queste scoperte apportarono agli standard di vita furono notevoli. L'illuminazione elettrica, la radio, l'automobile, il cinema, la pastorizzazione, il vaccino per la tubercolosi e altre comodità, tutte contribuirono ad un miglioramento delle condizioni di vita e al diffondersi di un senso di ottimismo.
Questa espressione ebbe fortuna perché esprimeva la contrapposizione fra l’epoca precedente e l’epoca successiva alla prima guerra mondiale, cioè tra il periodo della libertà e il periodo della perdita della libertà. La Belle Époque indicava la vita brillante nelle grandi capitali europee, le numerose esperienze artistiche, ma soprattutto esprimeva l’idea che il nuovo secolo, il Novecento, sarebbe stata un’epoca di pace e di benessere.

Tratto da Wikipedia


video sulla prima proiezione cinematografica


L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat [1896]




lunedì 6 ottobre 2014

A Silvia (parafrasi e commento )

http://www.fareletteratura.it/

Parafrasi
Silvia, ti ricordi ancora quel periodo della tua vita terrena quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi sorridenti e sfuggenti e tu, felice e pensierosa, eri sul punto di superare la soglia della gioventù?
Risuonavano le stanze tranquille e le strade circostanti al tuo canto ininterrotto, quando tu, intenta alle attività tipicamente femminili, sedevi, molto felice di quel futuro indeterminato e desiderato che avevi in mente. Era il mese di maggio, pieno di profumi, e tu eri solita passare così le giornate.
Io, abbandonando di tanto in tanto gli studi piacevoli e le carte che mi affaticavano, nei quali si consumavano il tempo della mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi della casa di mio padre porgevo le orecchie al suono della tua voce e a quello della tua mano veloce che con fatica tesseva la tela. Contemplavo il cielo sereno, le vie illuminate dal sole e i giardini e da una parte il mare da lontano, dall’altra la montagna. Le parole di un uomo non possono esprimere ciò che io provavo nel cuore.
Che pensieri stupendi, che speranze, che sentimenti, o mia Silvia! Come ci sembravano allora la vita umana e il destino! Quando mi ricordo di una speranza così grande, mi opprime un sentimento insopportabile e sconsolato, e mi torno a rattristare per la mia sfortuna. Natura, natura, perché non restituisci dopo quello che hai promesso prima? Perché inganni così tanto i tuoi figli?
Tu prima che l’inverno inaridisse le erbe, consumata e uccisa da una malattia interna, morivi, o mia tenera. E non vedevi la parte migliore dei tuoi anni; non ti addolciva il cuore la dolce lode o dei tuoi capelli neri, o degli sguardi innamorati e pudichi; né le compagne nei giorni festivi parlavano d’amore con te.Tra poco si estinguerà anche la mia dolce speranza: il destino negò la giovinezza anche alla mia vita. Ahimè, come sei svanita, cara compagna della mia giovinezza, mia compianta speranza!
È dunque questo quel mondo (così desiderato)? Sono questi i piaceri, i sentimenti, le attività, gli avvenimenti di cui parlammo tanto insieme? È questo il destino degli uomini? Al rivelarsi della verità, tu sei miseramente svanita: e indicavi con la mano la fredda morte e una tomba spoglia.




Commento 

La Canzone “A Silvia” fu composta da Leopardi durante il suo soggiorno pisano, nel 1928, periodo nel quale si concretizzava il più insanabile contrasto dell’esistenza leopardiana vista come sventura: quello tra la natura madre, che ispira nei cuori giovanili la speranza della realizzazione dei sogni che riguardano l’amore e un roseo futuro, e la realtà,prospettata dalla natura matrigna in modo spesso tragico con la morte.
Il poeta sirivolge a lei nella poesia ricordando il tempo felice della giovinezza in cui entrambi coltivavano speranze per il futuro, tradite poi dalla dura realtà della vita. Vi è infatti un parallelismo tra Silvia e Leopardi: come le speranze di Silvia per il futuro sono cadute a causa della morte prematura, così le speranze del poeta sono diventate delusioni. Quindi, il poeta si “scaglia” contro la natura accusandola di ingannare i suoi figli non mantenendo le promesse di felicità che fa crescere nel loro animo; è per questo che all’apparire dell’amara verità della vita, al cadere delle illusioni, secondo Leopardi, non ci restano allora che una tomba abbandonata e la morte che, inesorabilmente, pone fine ad ogni cosa. Perciò questa lirica, che si potrebbe scambiare per una dichiarazione d’amore, è in realtà un’amara riflessione sulla vita e sulla giovinezza. Silvia,quindi, è il simbolo della giovinezza perduta nella morte, della fine delle illusioni giovanili, dello spezzarsi definitivo di tutte quelle speranze che allietano la giovinezza e che purtroppo all’apparir del vero svaniscono miserabilmente.
Il poeta si rivolge a Silvia ricordandola in quel tempo della sua vita quando la sua bellezza splendeva nei suoi occhi ridenti e fuggitivi e lei, lieta e pensierosa, si apprestava al passaggio dall’adolescenza alla maturità. Inoltre il poeta ci racconta che le stanze tranquille della sua casa e le strade vicine risuonavano del suo continuo canto, quando era intenta ai lavori femminili e si sentiva felice pensando al bel futuro che aveva in mente.
Era il mese di Maggio profumato e Silvia trascorreva le sue giornate così.
Il poeta qualche volta lasciava gli studi piacevoli e faticosi su cui si consumava la sua adolescenza e la sua parte migliore e si affacciava dai balconi del palazzo paterno per ascoltare il canto di Silvia e il rumore del telaio mosso dalla mano agile della fanciulla. Racconta che contemplava il cielo sereno, i campi e le strade illuminate dal sole e da lontano il mare e dall’altra parte le colline.
E non vi sono parole adatte ad esprimere ciò che provava.
Leopardi andando indietro con la memoria ripensa ai progetti, alle speranze, ai sentimenti che coltivava in comune con Silvia e a come il futuro allora si presentava pieno di speranze. Quando ricorda queste speranze si sente opprimere da un sentimento crudele e inconsolabile e ricomincia a sentire tutto il dolore della sua vita. E rivolgendosi alla natura le chiede perché essa non mantenga le promesse che fa, non dando agli uomini ormai maturi ciò che promette quando sono ancora giovani. Perché inganna gli uomini?
Dopo lo sfogo contro la natura il poeta si rivolge a Silvia mettendo in parallelo la morte di Silvia e la caduta delle sue speranze.
Prima che giungesse l’inverno, Silvia veniva uccisa da una crudele malattia e moriva, e così non avrebbe conosciuto il suo futuro,non avrebbe provato la dolcezza di sentirsi ammirata e con le sue amiche non avrebbe mai parlato d’amore durante i giorni di festa.
Allo stesso modo anche la speranza del poeta morva poco tempo dopo: anche a lui il destino ha negato la giovinezza e la spensieratezza che si ha negli anni giovanili. E così il poeta si chiede il perché della morte di Silvia e della sua speranza, e se è giusto che i divertimenti, l’amore, le opere, gli eventi di cui avevano tanto discusso insieme e sognato debbano avere questa sorte.
All’apparire della verità crudele Silvia morì e con la mano indicava una tomba che l’aspettava priva di speranza.


tratto da Repubblica@Scuola



venerdì 3 ottobre 2014

L'infinito

L'infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle ,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
.spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo , ove per poco
il cor non si spaura . E come  il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno ,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Parafrasi
Questo colle solitario mi è sempre stato caro,
e anche questa siepe, che impedisce al mio sguardo
una gran fetta dell’orizzonte più lontano
Ma mentre siedo e fisso lo sguardo sulla siepe,
io immagino gli sterminati spazi al di là di quella,
i silenzi che vanno al di là dell’umana comprensione
e la pace profondissima, tanto che per poco
il mio cuore non trema di fronte al nulla. Quando sento
le fronde delle piante stormire al vento, così paragono
la voce del vento con quel silenzio infinito:
e istintivamente mi giunge in mente il pensiero dell’eternità,
le ere storiche già trascorse e dimenticate e quella attuale
e ancor viva, col suo suono. Così il mio ragionamento
si annega in quest’immensità spazio-temporale,
e per me è un naufragare dolcissimo.

Analisi e commento:

L’infinito è uno dei più noti idilli leopardiani, fu composto nel 1819 ed è una testimonianza di quel dissidio tra finito ed infinito, tra realtà e ideale, che caratterizza l’uomo romantico.
La poesia descrive il poeta solo sul monte Tabor a Recanati. Una siepe impedisce a Leopardi la vista di buona parte dell’orizzonte e questo ostacolo suscita in lui una riflessione su ciò che trascende il reale e fa spaziare nell’immensità. La siepe rappresenta dunque una barriera tra il mondo esterno e i pensieri del poeta. Essa è il simbolo di tutto ciò che è limitante e limitato e quindi stimola l’immaginazione e l’istintivo bisogno, proprio di ogni uomo, di infinito. Stando seduto a osservare, egli immagina spazi interminabili oltre la siepe, silenzi che superano ogni possibilità di comprensione da parte dell’uomo e una quiete assoluta dove il cuore prova quasi smarrimento (“ove per poco il cor non si spaura”).
L’improvviso stormire delle foglie lo riporta alla realtà ma come la siepe gli aveva suggerito l’idea dell’infinito spaziale così il rumore del vento gli suggerisce l’idea dell’eternità, cioè dell’infinito temporale.
Le sue riflessioni perdono ogni definizione logica in questo infinito che si estende senza confini nello spazio e neltempo. Egli si abbandona dolcemente in questa nuova dimensione annullando la propria identità



.Poesia letta da Vittorio Gassman

cominciamo dalla Letteratura ... Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati nelle Marche. La sua prima educazione venne curata dal precettore Don Sebastiano Sanchini ma fin da piccolo egli trascorre molto tempo nell'imponente biblioteca del padre scegliendo da sé le sue letture. Nel 1809 si dedicò ad uno studio che egli definì "matto e disperatissimo" che danneggiò irreparabilmente il suo fisico e lo rese di aspetto miserabile e di animo più triste. Nel 1816 indirizza alla rivista "Biblioteca Italiana" la "lettera ai signori compilatori della Biblioteca Italina" nella quale difende le posizioni classicistiche contro quelle di Madame de Stael che sostiene invece ideologie di carattere romantico.Questo suo scritto non viene però pubblicato. Nello stesso periodo avviene anche la sua conversione letteraria dalla erudizione vera e propria al gusto della bellezza e stringe amicizia con Pietro Giordani che intuendo il suo senso d'isolamento , l'insofferenza verso il chiuso ambiente della famiglia e di Recanati e la sua genialità, lo incita  a proseguire gli studi e le prove poetiche.
Intanto nel 1819 si avvia alla cosiddetta "conversione dal bello al vero" cioè dalla poesia alla filosofia, egli afferma infatti: 
"cominciai a seguire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso , cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose, a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era) , a sentire la mia infelicità certa del mondo in luogo di conoscenza, e se io mi metteva a far versi, quei versi traboccavano di sentimento"

Nel 1819  è colpito da una malattia agli occhi che lo tormenterà tutta la vita. Tenta la fuga da Recanati, esasperato dall'oppressione familiare e dall'incomprensione che lo circonda, ma i suoi piani vengono scoperti e il progetto fallisce. In questo momento di profondo malessere fisico e di cupa depressione, in cui medita anche il suicidio, il poeta rielabora e dà forma poetica ai motivi del suo pessimismo. Nascono infatti i "Piccoli Idilli ".
Solo tre anni dopo gli viene dato il permesso di andarsene da Recanati per recarsi a Roma ma la città e l'esperienza romana lo deludono profondamente. Fa dunque ritorno a Recanati e comincia a comporre le "Operette Morali" , un opera in prosa interrompendo così l'attività poetica.
Nel 1827 si trasferisce a Pisa il cui clima sembra giovare alla sua salute sia fisica che mentale, siamo infatti in una fase di relativa serenità durante la quale riprende a scrivere in versi; compone infatti "A Silvia" il primo dei "Canti" noti anche come "Grandi Idilli".
Nel 1830 a Firenze conosce Fanny Targioni Tozzetti e si innamora di lei. Amore però non corrisposto, appassionato e disperato la cui storia è testimoniata dal gruppo di poesie note come "Ciclo di Aspasia" .
Intanto però le sue condizioni fisiche peggiorano sempre di più tanto che egli ormai sempre più depresso si definisce :"un tronco che sente e pena "
Nell'aprile 1836 per sfuggire ad un'epidemia di colera , va ad abitare sulle pendici del Vesuvio  e ispirato da questo paesaggio compone i suoi ultimi capolavori come "La Ginestra o il fiore del deserto" .
Nel 1837 le sue condizioni di salute si aggravano, muore il 14 giugno.